La Garbart nasce contestualmente alla Street art, a New York negli anni 70; con essa condivide i fermenti artistico-culturali sviluppatisi soprattutto nelle aree marginali, e nelle periferie, in parte abbandonate, di questa città. Una coabitazione che non impedisce, nel tempo, la formazione di modalità espressive sempre più distinte, ben identificabili anche nella diversità tecnica e nell’uso dei materiali, che nel caso di artisti aderenti alla Garbart (garbartist) sono, in gran parte riciclati.

La peculiarità espressiva della Garbart, si delinea via via, e poi si concretizza nell’esprimersi con materiali e oggetti progettati, prodotti, consumati e gettati dall’uomo; una modulazione espressiva implicitamente connessa al tempo in cui viene prodotta. Si basa infatti sul riciclaggio artistico dei rifiuti, ideato agli inizi degli anni 70 da Giorgio Bertin (motivato anche dalle nuove problematiche ambientali causate dal consumismo). Oggetti e materiali cambiano destinazione e anche il loro destino, possono diventare una scultura, un bassorilievo, anziché finire in discariche o inceneritori.[1] Successivamente, fenomeni assimilabili alla Garbart, (difficilmente documentabili in quanto poco indagati dalla critica ufficiale) oltre che negli USA, si riscontrano anche nelle aree marginali e di smaltimento delle più grandi città europee: LondraParigiBerlino… dove schiere di garbartists si istallano dando il via agli “ateliers collettivi”; in seguito questa tendenza artistica viene accolta da Omar Calabrese nel perimetro semantico del Neobarocco.[2]

Scultura rappresentante una gallina, assemblata con RSU (Rifiuti Solidi Urbani)
Gallina estrogenata Giorgio Bertin (1983)

Il termine “Garbart” è stato creato da Gianmaria Mussio combinando le parole inglesi garbage (rifiuto) e Art (arte).[3]

Nel libro di poesie Percorsi è presente una poesia della poetessa Giovanna Bruco dal titolo Garbart.[4][5]

Storia

Origini

Già prima degli anni ’60, con l’avanzare delle nuove tecnologie, le società occidentali iniziarono a produrre oggetti di consumo non più assimilabili dall’ambiente. L’uso di nuove materie, genericamente chiamate plastiche o composti polimerici, ampliò ulteriormente il consumismo, con l’utilizzo massiccio di questi materiali.[6]

Giorgio Bertin, si recò a New York tra il 1981 e il 1982 con un gruppo di garbartists per vedere e documentare lo smaltimento, (si trattava allora della città con la maggiore produzione: 15.000 t/giorno ca.) via fiume e via terra, dei rifiuti della città.

La Garbart, dice Giorgio Morales, assessore alla Cultura, poi sindaco, del Comune di Firenze, è l’arte dei rifiuti, ma non solo dei rifiuti, rivendica con pieno diritto la propria essenza di arte, combinandola con l’intenzione provocatoria di travalicarne i confini. La Garbart accetta e trasforma i rifiuti, non cerca di sublimarli ma di suggerire e provocare. Come Bertin scrive ne “La cultura dei rifiuti”, un tempo l’arte celebrava la natura e la vita; oggi, invece, dobbiamo difenderle, e lui lo fa attraverso l’uso dei rifiuti. Ci costringe a riflettere sui rifiuti oltre i problemi tecnici e sociali della loro gestione, ponendo una questione più profonda: come affrontare la logica del consumo, dell’emarginazione e dei sottoprodotti indesiderati della tecnologia.[7]

New York e T.A.EX.

Il termine Garbart affonda le sue radici anche nei collapsed suburbs delle estreme periferie newyorkesi, dove gran parte degli street artists (molti dei quali senza tetto) trovavano alloggio negli edifici pubblici (scuole, tribunali, inceneritori, luoghi di culto, fabbriche dismesse, mattatoi…) abbandonati, ma ancora agibili in quanto costruiti con criteri di maggiore robustezza.

Già negli anni ’50 del Novecento, (dai racconti dei veterani di questi eventi) le comunità di artisti (di origini ed etnie molto diverse) così formatesi cominciarono a tenere le prime “exhibitions”: sorta di esibizioni artistiche clandestine, chiamate anche T.A.EX. (Total Artistic EXhibitions).[8] Le strutture scelte erano molto grandi, in grado di contenere centinaia di opere e gli artisti che le producevano.[9]

I partecipanti, in maggioranza uomini, venivano condotti, di volta in volta, nei luoghi prescelti dal passaparola e da incontri casuali tra “artisti di strada”. Il carattere di clandestinità di questi eventi era adottato anche per non incorrere in divieti e controlli delle autorità, vista l’elevata presenza di partecipanti; di conseguenza era anche proibito introdurre macchine fotografiche, cineprese, registratori: l’exhibition doveva rappresentare solo un fenomeno esperienziale che ognuno avrebbe portato per sempre con sé. Infatti, alla fine di ogni raduno, tutto veniva abbandonato, solo qualche opera di piccole dimensioni veniva portata via.

Tutte le discipline e le forme artistiche potevano essere rappresentate: arti figurative (tutte le pareti, interne ed esterne degli edifici agibili, venivano coperte da affreschi e murales), musica, poesia, teatro, mimo, balletto, giocoleria…

Per le arti figurative, gli artisti recuperavano, gran parte del necessario (carta, cartone, tessuti, plastiche, metalli, pannelli e sportelli di legno, vernici e tanto altro) negli ammassi di rifiuti depositati nelle vicinanze dagli abitanti delle periferie ancora abitate.

Muovendosi all’interno di una exhibition, l’artista perdeva la propria identità di artista, lasciandosi trasportare dentro un’oasi estetica; un vivere non l’arte ma dentro un’opera d’arte. Una ricerca estetica intensa, assolutizzante dell’arte, una traccia indelebile lasciata e poi diffusa dai partecipanti, alla quale avrebbe attinto buona parte dell’arte contemporanea.

Un modo per sfuggire ad un’arte troppo spesso svilita, segregata nelle ristrettezze del bello o del brutto, del vale o non vale, deciso dai gestori economici dell’arte e non da chi la ama. Arte prodotta non da un artista ma da una comunità artistica di uomini che a loro volta facevano parte di una variegata comunità umana”[8]

“Tendenzialmente le azioni umane, prima ancora di essere ingiuste, tragiche, inique, sono brutte. Tradiscono tutte le leggi della bellezza, non solo dell’arte ma anche della natura”[10]

Il rapporto con l’Arte povera

Giorgio Bertin, al rientro in Italia, dopo l’esperienza americana, venne contattato da enti culturali, associazioni ecologiche e da esponenti dell’Arte povera; trovandosi con quest’ultimi in disaccordo su vari punti, sostenuto in questo anche da numerosi aderenti alla Garbart.

Per loro infatti, l’Arte Povera non era abbastanza povera rispetto alla quantità di materiali rifiutati a disposizione, ritenendo anche che questo movimento non si rapportasse in modo adeguato alle problematiche ambientali.

Non si riconoscevano, inoltre, negli enunciati dell’Arte Povera avulsi dalla decadenza culturale e sociale indotta dal consumismo. Ecco l’incipit di una sua poesia divenuto poi il motto del gruppo: “I rifiuti sono i fiori del male / del nostro tempo / e hanno tanto da raccontare / e da testimoniare”[11].

Secondo i garbartists, l’Arte Povera tende ad esprimersi operando una selezione dei materiali e degli oggetti prodotti via via dal “progresso” tecnologico e ad usarli soprattutto nella loro integrità, quindi nella fase pre-rifiuto, perdendo così l’impatto entropico dei rifiuti e la loro componente più pregnante: quella collegata alla vita di tutti i giorni con gli oggetti, al desiderio di possederli, all’acquisto (anche come regali), alla loro permanenza nelle case, al loro consumo e declassamento a rifiuto, alla loro eliminazione. Tutti “valori” aggiunti che invece la Garbart fa propri e ripropone con le sue opere alla riflessione del visitatore, ricollegandolo anche alle proprie scelte di consumo ed al suo rapporto con gli oggetti nella quotidianità.

Un giocattolo divenuto rifiuto, recuperato e inserito da un garbartist in un bassorilievo o scultura, oltre a contribuire all’opera, la permea anche dei momenti felici e del vissuto di un ex-bambino.